Don Bruno risponde Allo "Stralcio"

Giovedì 28 Ottobre 2010 19:39 don Bruno Cirillo
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Ad un primo sguardo, gli argomenti trattati nel testo mi paiono di natura prevalentemente filosofica. Io non sono esperto nella materia e su questi mi limiterò prevalentemente a presentare i dubbi che la lettura ha suscitato in me. In trasparenza si evidenziano però questioni di ordine più esistenziale, che in ultima analisi riguardano il problema di una conoscenza “vitale” di Dio e del mondo. Su questi aspetti potrò esporre in modo più diretto il mio punto di vista.

Partirei dalla questione della definizione di sé (p. 2 e ss.). Il fatto è che l’autodefinizione, l’identità, fa capo all’ “io”. Cosa definisce l’io? Il dramma di Stefano sta nel fatto che l’ “io” è sezionato a metà tra corpo e cervello, inteso come “sede” di quella razionalità di cui si parla in seguito (almeno così mi pare di capire). E in parti uguali, come se si trattasse di due principi irriducibili l’uno all’altro. Non sono in grado di andare a fondo della questione con argomentazioni che attengono alla metafisica. Rilevo solo che nell’esperienza ordinaria il corpo è percepito come costitutivi dell’io (il mal di testa ce l’ho io), benché si sperimenti una dimensione della persona che va oltre i fenomeni corporali e che è in grado di riconoscerli. La possiamo definire “intelligenza\razionalità” consapevole, come spiega anche Giorgio (p. 10). Ad essa ci pare si affianchi la capacità di realizzare progetti che la nostra “intelligenza” elabora. Questi elementi (corpo, razionalità, volontà) da un punto di vista fenomenologico afferiscono ad un principio unitario che nel linguaggio ordinario viene espresso appunto come io. Credo che la risposta a cosa sia l’ “io” non possa prescindere da questi dati di esperienza.

Se questo è vero è difficile pensare ad un’anima che sopravvive al corpo, come principio separato da esso. È vero che questo è stato il linguaggio che per secoli è stato usato nella nostra catechesi. Ma la fede cristiana parla di resurrezione dei morti (nell’interezza della loro persona). Questa fede si basa essenzialmente sull’esperienza della Pasqua di Cristo, risorto nella pienezza del suo essere, anche se in una dimensione che va oltre lo spazio-tempo come lo sperimentiamo noi. L’esperienza del nostro percepirci “uno” trova conferma in questo dato essenziale della nostra fede (cf 1 Cor 15).

Riprenderò più avanti la questione dell’io

 

È vero poi che la “ragione” delle cose (p. 8) può essere rappresentata in leggi frutto di misurazione numerica. Ma è l’unica “ottica” in cui si possono spiegare le cose? È esclusa una indagine, di altra natura ovviamente, che indaghi questa “ragione” in rapporto alla sua causa prima, non misurabile scientificamente? La spiegazione del “patire” del mondo come “battaglia” tra una ragione intrinseca alla materia ma “altra”, cioè non riducibile ad essa (p. 9) non è una spiegazione metafisica (cioè non provabile scientificamente)?

Dire che la materia esiste da sempre (p. 7) significa farla coincidere con Dio. E così dicendo non si risolve il problema di chi “le ha dato il primo calcio”, perché non basta dire “esiste e basta” (p. 7). Essa stessa è infatti finita, perché misurabile, dunque non viene da sé. Le leggi scientifiche che individuano il modo di funzionare della natura sono per loro natura “falsificabili”, altrimenti non sarebbero “scientifiche”. Ci dicono in realtà qualcosa, sempre perfettibile, dei meccanismi di funzionamento della materia. Eppure esse stesse ci provano che un principio organizzatore c’è. Sarebbe la “ragione”, di cui parlavamo sopra. Ma da dove viene? Non sembra essa stessa coincidere con Dio, altrimenti sarebbe infinita e comunque, secondo il nostro autore, non è trascendente.

Riguardo al problema filosofico dell’esistenza di Dio, non è possibile applicare a Lui il principio di causa ed effetto scientificamente, cioè secondo la modalità adeguata “ai fenomeni della natura e del mondo” (p. 6), semplicemente perché egli, per definizione, non è un “fenomeno” di tal genere. È altro da essi.

Questi i dubbi e gli interrogativi che mi pongo da profano del pensiero metafisico. Come credente, mi colpisce il fatto che nello stesso ragionamento dell’autore sembra ci sia bisogno di un “infinito”, come “quadro” in cui collocare materia e ragione. Senza questo “orizzonte” pare non ci possa essere quel confronto-scontro che produce il movimento continuo della materia (p. 9 e 10). L’autore lo identifica con il tempo (p. 10). Ma come si spiega scientificamente il tempo infinito, che come tale non è misurabile?

E poi, c’è anche l’infinito che l’uomo riesce a pensare (p. 6) pur essendo finito! Sarebbe, questa, la “debolezza” dell’uomo, da cui nascerebbe il bisogno di “crearsi” Dio. Ma chi ha “messo” nell’uomo questo “richiamo” del pensiero che rimanda all’infinito? Non lui stesso, perché per definizione è finito. E si tratta di un pensare su cosa? Non è forse su un’esperienza realmente vissuta, per quanto enigmatica, di quel “Dio ignoto” di cui parla Paolo all’Areopago di Atene rifacendosi anche alle riflessioni di poeti\filosofi pagani (cf At 17,22-28)? Che poi la fede cristiana abbia riconosciuto in Cristo il volto di questo Dio in cui ogni cosa sussiste (Col 1,17; Eb 1,3) conferma quell’esperienza originaria che a tutti è data.

E la sofferenza di Giorgio (p. 6) penso nasca proprio dalla consapevolezza di questa esperienza, che egli non sa decifrare e a cui da una spiegazione ormai abbondantemente datata (Feuerbach). Le religioni nella sua ottica sarebbero fenomeni di opportunismo, gestite da uomini (i sacerdoti), che affermano il loro potere sugli altri uomini soprattutto con la frusta del peccato e promettendo una ricompensa (il paradiso) evidentemente illusoria. E i sacerdoti martiri (non solo cristiani), in nome di una vita che va oltre la morte (cf solo 2 Tm 6-8)? Non sarebbero le prime vittime del mostro da essi partorito? E la “geniale idea” del peccato non può essere pensata invece come una codificazione della coscienza del male (non del senso di colpa!) che è una esperienza originaria dell’uomo, il quale “sa” di non doverne rendere conto ad altri uomini, ma solo a Dio, comunque lo si intenda (cf p. es. Sal 51,6)?

Giorgio soffre, mi pare, perché sa queste cose e intuisce che le risposte da lui date non sono soddisfacenti. Soprattutto sul piano esistenziale. E davanti al mistero della morte, in cui egli pure è immerso (p. 11), getta la spugna. La sua risposta, l’ “eterno ritorno dell’uguale” è insufficiente alla luce della stessa “ragione” che la elabora (non è scientificamente dimostrabile). Ma soprattutto è insufficiente al suo cuore. La stanchezza e l’amarezza che prova davanti a questo argomento (pp. 10-11) dimostrano che non solo Stefano, ma lui stesso ha “aspettative” di altro genere. La “fusione” finale di Giorgio e Stefano in una solo vaga entità (la materia che si “ricicla”?) è l’espressione psicofisica del nichilismo a cui il ragionamento di Giorgio coerentemente porta.

 

Per una interazione positiva con le posizioni dell’autore ripartirei dall’ “io”. Comunque lo si spieghi, esso è esperienza di libertà. Questo è un dato originario della coscienza di sé di cui, come detto, parla lo stesso Giorgio (p. 10). Pensare che la libertà ci sia stata data da Dio solo per metterci alla prova (p. 4) significa effettivamente definirlo “sadico”. Il punto è che la nostra vita non è un “nastro registrato” (p. 5), perché l’idea di creazione non coincide necessariamente con quella di determinazione a priori del vissuto. Non esiste nell’uomo un’ “essenza che precede l’esistenza” (p. 4). Un’idea divina incapsulata in un corpo-materia che si sviluppa nel tempo di un’esistenza a questo punto puramente nominalistica, vuota in se stessa. La rivelazione biblica (cf Gn 2,16-17 e il cap. 3; Dt 30,15-20; Gal 6,7-9) e la riflessione antropologica “laica”convergono in questo (come non pensare ad Heidegger, per esempio). D’altra parte anche nel mondo vegetale o animale (distinto dall’uomo) l’esistenza non è puramente determinata dal codice genetico (e neppure dalla ”ragione” ad essi intrinseca): per esempio, vi sono anche le condizioni ambientali ad influenzarla e per quanto esse stese possono essere pensate come frutto di quella “ragione”, gli effetti che esse producono su piante ed animali nel momento in cui avviene l’interazione non sono prevedibili.

Certo non è facile conciliare, per il nostro pensiero, l’onniscienza di Dio con la libertà dell’uomo. La Scrittura (cf Is 44,6-8; Mt 10,29-30) e la fede della Chiesa dicono che Dio agisce nella storia e la governa. Ma la difficoltà di spiegare il fenomeno non può portare a negarlo o a inquadrarlo in categorie di pensiero riduttive o distorcenti.

L’io ha il bisogno irrinunciabile di autodefinirsi, come l’autore stesso ammette. Questa autodefinizione coincide con l’identità (p. 3). E questa esige una unicità, irriducibile a qualsiasi altra entità esistente, Dio compreso. In parole più semplici, la libertà ha bisogno di realizzare se stessa in pienezza. Ciò avviene, è vero, nel “confronto” (non tanto “in contrapposizione”) agli altri: il nostro “istinto” non è di allontanamento dagli altri, ma di “integrazione nella distinzione” con essi.

La relazione è allora la strada lungo la quale cercare le risposte alle questioni poste da Giorgio. Essa è esperienza originaria dell’altro in quanto altro e precede qualsiasi ragionamento, pur essendo essa stessa “intelligente” e consapevole. La relazione mi dice in modo “fondante” che esiste l’altro ed esisto io distinto da lui. Il pensiero ha il compito esplorare questo dato in tutte le sue implicazioni. E in questo terreno si incontra Dio, come accennavo sopra a proposito del “Dio ignoto”.

L’amore, dato irriducibile a qualsiasi meccanismo fisico-chimico perché si mostra espressione suprema di libertà (nessuna alchimia o violenza può costringere ad amare) è il “luogo” in cui si fa esperienza in modo più semplice e profondo di questa struttura della conoscenza. L’amore è infatti pienezza della relazione. Mi affido qui alle parole di Roberto Mancini (Rivista del Clero Italiano 1/2010, p. 57): “Il nostro amore è sempre una risposta… provocata dalla presenza di una realtà di valore, di bene, di bellezza, di senso che diventa per noi come un invito e come un seme… Amare umanamente significa convertirsi a un Amore sconosciuto, più grande e più vero del nostro… Con gli occhi della fede si riconoscerà Dio nell’Amore. Ma anche con uno sguardo diverso da questo non si può non vedere che voler bene a qualcuno non significa mai inventarsi o fabbricare questo bene. Significa piuttosto partecipare di una corrente di bene più grande, che permette a te e a me di incontrarci e di tessere una buona prossimità”. Invece che in un tempo impersonale, anche Giorgio potrebbe individuare in questa corrente di bene più grande la cornice entro la quale le cose del mondo si muovono e si definiscono. Questo orizzonte in realtà non annulla l’io e l’altro, ma garantisce una “distanza” “che - dice ancora Mancini – permette all’altro di restare libero e originale anche nella relazione amorosa più stretta”.

Tutta la Scrittura è documentazione, nelle modalità espressive più svariate, di questa verità. Ma lo fa in termini storico-esistenziali. La Bibbia infatti “narra” la rivelazione di questo Amore, che assume le fattezze di un Dio personale, in se stesso amore (cf 1 Gv 4,8) e che ha assunto l’iniziativa di andare incontro agli uomini: “In questo sta l’amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati” (1Gv 4,10). Qui è il fondamento del nostro “definirci” reciprocamente: “Se Dio ci ha amati così, anche noi dobbiamo amarci gli uni gli altri” (1 Gv 4,11). Il comandamento “a due facce” è non solo la legge-sintesi, ma l’emblema stesso del cristianesimo: “(Disse Gesù): Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente. (Dt 6,5) Questo è il grande e il primo comandamento. Il secondo è poi simile a quello: Amerai il tuo prossimo come te stesso. (Lv 19,18) Da questi due comandamenti dipendono tutta la Legge e i Profeti” (Mt 22, 37-40).

 

 

 

 

 

 

Ultimo aggiornamento Giovedì 28 Ottobre 2010 20:32